Il sistema tributario – fiscale italiano è protetto da leggi che prevedono sanzioni penali quando il cittadino contribuente o altri soggetti, ad esempio i fiscalisti, commettono un illecito involontariamente o volontariamente. Si parla dunque di reati tributari, tra i quali la dichiarazione infedele, che aprono un procedimento penale e non solo sanzionatorio.
I reati tributari possono ricadere nella casistica degli illeciti, nell’errata compilazione della dichiarazione dei redditi (andando a superare valori soglia che fanno “scattare” i controlli) oppure mancati pagamenti delle tasse e/o imposte. Oltre alle persone fisiche chiaramente i reati tributari riguardano anche le imprese e le società: le prime rispondono per emissioni di fatture false, mancati o errati versamenti di imposte quali l’IVA, IRES, IRPEF ad esempio […]; le seconde spesso ricadono nelle sanzioni penali per illeciti volti a costituire un vantaggio fiscale a favore della società (e quindi dei soci che ne fanno parte) stessa.
La normativa di riferimento principale a cui volgere l’attenzione per comprendere le sanzioni penali alla base dei reati tributari è il Decreto Legislativo 74/2000 aggiornato al decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (visibile qui).
Un’altra legge importante da tenere presente è la legge del 27/07/2000 n. 212 che riguarda le “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente” (visibile qui): lo statuto, introdotto dalla legge citata, è uno strumento a tutela dei diritti del contribuente regolando i rapporti tra lui e l’Amministrazione Finanziaria. I presupposti sono chiarezza, trasparenza, collaborazione e buona fede.
I reati tributari possono essere soggetti a sanzione amministrativa (ammenda) oppure sanzione penale (multa o reclusione); in questo articolo dedichiamo un’analisi più approfondita ai secondi.
Prendiamo in considerazione il caso della dichiarazione infedele esaminando una sentenza della Cassazione riguardo la perseguibilità penale di detto reato.
Una cittadina contribuente, socia di due Sas, omette la dichiarazione degli utili derivanti da una delle due società ed i corrispettivi della cessione delle proprie quote (l’omissione di imposta è pari ad euro 458.621,00). A seguito di sentenza di condanna per dichiarazione infedele la signora chiede al tribunale dell’esecuzione la revoca di quest’ultima.
Da una parte la difesa della contribuente si avvale dell’art.10 bis L.212/2000 al comma 13 che esclude la sanzione penale per operazioni meramente abusive ma esistenti con lo scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale.
Dall’altra parte il giudice dell’esecuzione rileva che le operazioni non hanno carattere meramente abusivo ma sono inesistenti e gli scopi per cui sono state eseguite andavano oltre il solo vantaggio fiscale.
Il parere definitivo della Cassazione (Sentenza Corte di Cassazione, sezione penale, n. 9378 depositata il 1° marzo 2018):
viene ripreso l’art. 10 bis comma 13, portando un esempio concreto di come le operazioni abusive, esistenti e volute benché prive di sostanza economica, con lo scopo di portare indebiti vantaggi fiscali non possano essere integrate in condotte penali rilevanti.
Inoltre viene contestata l’interpretazione del giudice dell’esecuzione che ha rilevato come inesistenti le operazioni abusive a causa di finalità differenti dal solo vantaggio fiscale e dalla presenza di schemi societari con prestanomi.
È bene ricordare prima di introdurre la seconda parte di tale punto, di cosa trattano l’art. 3 e 4 della Legge sui reati tributari in particolare il Decreto legislativo, 10/03/2000 n° 74:
L’errore commesso dal giudice di esecuzione risiede nella classificazione di queste operazioni che comunque sia hanno realizzato un vantaggio fiscale indebito ed effettivamente sono esistenti, per cui l’ordinanza (che nella motivazione sottolineava la dichiarazione infedele per operazioni realizzate!) di condanna viene annullata ed il tutto è rimandato al Tribunale per il ri-esame delle operazioni, della loro natura e del loro scopo.